Il secolo delle rivoluzioni e dei
“sepolti vivi”
(libero adattamento di un intervento di Erri De Luca)
Il secolo ventesimo è stato quello delle rivoluzioni, la
prima in Russia nel 1905, le ultime nell’Europa orientale dopo il collasso del
patto di Varsavia. Con le rivoluzioni sono stati rovesciati (non sostituiti o
avvicendati) governi, rapporti di forza e di oppressione, emancipando immense
masse umane del novecento, dall’Asia alle Americhe. Ci sono stati morti, tanti
morti, come è naturale che sia in ogni sconvolgimento sociale e politico nella
sua fase più acuta. E’ andata così nel mio tempo, quando ero un militante
rivoluzionario nell’Italia e nella Svizzera degli anni ‘70, non per estro di
gioventù ma in obbedienza all’ordine del giorno del mondo. Capiterà di nuovo, ne sono
certo, per la semplice ragione che all’uomo più che la storia interessa il
guadagno e la supremazia sul suo simile, fattore questo che porta
inevitabilmente a sconvolgimenti violenti dell’ordine costituito.
Sono ancora in vita gli ultimi rivoluzionari del 1900. Alcuni
sono diventati capi di stato e di governo, per loro si suonano gli inni
nazionali. Altri restano dietro sbarre, in esili senza fine, o in precaria
libertà dopo decenni di detenzione nelle carceri speciali che equivalgono a
decenni di tortura. Queste ultime vite andrebbero protette, perché sono la
reliquia politica del secolo delle rivoluzioni e perché sono una parte della
storia infinita del movimento antagonista.
Parimenti andrebbero protetti quelli che stanno per essere
estradati da un paese all’altro (cioè da una prigione all’altra) e rispediti al
giorno uno di pena, alla casella di partenza, colpevoli secondo il diritto
dominante di reati politici di trenta e più anni fa (otto olimpiadi!). Questo
non è solo triste, è antico, obsoleto. Ribadisce che il ventesimo secolo è ancora
in corso, alla faccia del miope che l’ha intravisto breve o del bischero che
aveva preannunciato la fine della storia. Se si vuole prendere congedo dal
secolo delle rivoluzioni, occorre lasciare gli spiccioli di vita di questi
antagonisti al loro cammino, togliendoli dal sottile martirio delle ultime porte
chiuse a chiave.
Una
democrazia matura, come si autodefinisce quella del nostro continente, dovrebbe
avere la misura e la saggezza politica per correggere le distorsioni e
stabilire, in completa autonomia, il tempo di chiudere e quello di aprire. Le
vite di questi militanti vanno protette non per clemenza ma per evidenza di
tempi scaduti, per diritto politico di chiudere il registro di classe del 1900,
per smetterla una buona volta di suddividere i
rivoluzionari in vincitori da accogliere con cerimonia ufficiale, e vinti da
estradare. Questo non perché sono anziani, l’età non è un’attenuante. Attenua,
sì, molte cose, ma non la responsabilità di aver tentato l’assalto al “quartier
generale” al tempo ritenuto necessario.
Se si desidera, come sembra di capire, dichiarare prescritto
il secolo delle rivoluzioni, se non altro per igiene fisica e mentale, si
consegni questi vecchi militanti (i nomi sono inutili perché uno vale l’altro) all’archivio
politico e non alla cronaca giudiziaria.
E’ una buona occasione per rimettere la politica al posto che
le compete. Le polizie devono attenersi a mandati di cattura anche
abbondantemente scaduti, le democrazie decenti no, se vogliono evitare il
precipizio che le muta in repubbliche delle banane.