mercoledì 25 febbraio 2015

La Grecia che combatte e non si arrende

Le gardien-chef de la prison de haute sécurité de Domokos, où sont regroupé les prisonniers révolutionnaires, a été abattu hier soir près de la ville de Lamia, dans le centre de la Grèce. C’est alors qu’il montait dans sa jeep garée devant sa maison de Kouvela, vers 17h30, pour aller chasser, qu’une voiture de tourisme avec deux ou trois personnes à bord s’est approchée et que le mitraillage a commencé. Le gardien-chef a été criblé de balles de kalachnikov et de pistolet automatique. Une vaste opération policière a été lancée dans la région.

Fonte:http://www.secoursrouge.org/


domenica 22 febbraio 2015

Svizzera italiana 2015:Operai e schiavi? O così o il fucile!

Exten, terzo giorno. La testimonianza di uno degli operai: “Speriamo di porre presto la parola fine. Ma noi vogliamo lavorare, non essere schiavi”

Uno dei dipendenti in sciopero racconta come stanno vivendo questi giorni: “Eravamo pronti al compromesso, ma quando hanno cacciato la segretaria hanno ucciso gli animi"
MENDRISIO/ Cantone Ticino – Lo sciopero prosegue. “I lavoratori di Exten, durante l’assemblea di sabato pomeriggio hanno deciso di continuare”, racconta Vincenzo Cicero di Unia dal presidio. “C’è stato anche un momento di sfogo per la rabbia nei confronti dell’attitudine dimostrata dall’azienda. Hanno quasi fretta di rientrare, per non perdere la fiducia dei loro clienti e garantire un futuro solido all’azienda che con il suo atteggiamento sta facendo il contrario”.
Durante l’assemblea è stato anche eletto un comitato di sei lavoratori che accompagnerà il sindacato nel corso delle prossime trattative. Quando queste avverranno, non è ancora dato sapere. “Attendiamo un gesto dalla direzione”, commenta Cicero. Intanto, con l’appoggio dei lavoratori, Unia si prepara a promuovere l’appello di solidarietà lanciato ieri: una raccolta firme in sostegno dei dipendenti di Exten, ma anche di invito alle istituzioni, alla politica e alle associazioni padronali ad intervenire “per la tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori”.
"Vogliamo lavorare, non essere schiavi"
La prossima assemblea è prevista per lunedì e intanto il presidio continua. Un mezzo di Unia, con striscioni e bandiere blocca l’ingresso della ditta e nel pomeriggio gli operai si sono attrezzati con un tendone e un fuoco per contrastare il freddo, la pioggia e la neve di queste ore. “Non mi aspettavo un’organizzazione così grande da parte del sindacato. Stiamo ricevendo davvero un grande appoggio”, commenta Fabio Galano, dipendente parte del comitato di sciopero che a Liberatv ha raccontato come lui e i suoi colleghi stanno trascorrendo questi giorni.
“Ci organizziamo con dei turni. Speriamo che si arrivi presto a una soluzione, perché non stiamo vivendo bene questo sciopero: vorremmo al più presto tornare a lavorare. Ora speriamo che lunedì ci sia questo nuovo incontro con la direzione e che possa portare a qualcosa”.
Insomma, la speranza è quella di porre presto la parola fine a uno sciopero, racconta, “iniziato con gran paura da parte di tutti: abbiamo mutui, famiglie da mantenere, molti di noi rappresentano l’unico reddito in casa e fanno fatica ad arrivare a fine mese… Da parte di tutti c’era timore, ma la nostra forza è stata quella di riunirci e mostrarci compatti e decisi contro questa misura davvero troppo pesante. Adesso speriamo si vada al più presto verso una fine e di poter riprendere a lavorare”.
I segnali, dall’azienda, non sembrano però esser incoraggianti. A pesare sulla scelta di continuare lo sciopero, oltre al mancato riconoscimento delle richieste espresse dai lavoratori, anche l’episodio avvenuto venerdì quando la segretaria della ditta, impiegata storica di Exten, è stata allontanata in malo modo.
“Proprio così. È una persona dolcissima e davvero buona, è qui da 30 anni e conosce vita morte e miracoli dell’azienda. È inammissibile quanto è accaduto e ha ucciso ancora di più gli animi: se prima avevamo lasciato uno spiraglio di possibilità di incontro, dicendoci pronti ad accettare una decurtazione fino al 15% del nostro stipendio, ora abbiamo chiuso tutte le porte. Ci teniamo all’azienda come operai, ci dà il pane. Ma la dignità è una sola: noi vogliamo lavorare e non essere schiavi”.
Galano lavora ad Exten da otto anni ormai e il clima, racconta, era quello di molte altre aziende. “Fino a due o tre anni fa si lavorava senza problemi. C’erano evidentemente degli screzi interni, come capita dappertutto, nessuno però si era mai lamentato del salario. Ma quando si va a toccare il portafoglio dei lavoratori in maniera così grande… non ci ha più visto nessuno!”
Toccare il portafoglio e senza spiegazioni: come ha ribadito più volte anche Unia nel raccontare del caso, la decurtazione del 26% per i frontalieri e del 16% per i residenti è stata ‘imposta’ senza che la misura venisse motivata con la presentazione della situazione finanziaria dell’azienda o con piani di rientro.
“Noi eravamo ben disposti a venire in contro all’azienda e a rinunciare a una parte del salario, ma il 26%? ...mi stanno dicendo che è una cosa mai successa in Ticino. Noi possiamo basarci solo sulle voci, perché non è stato presentato uno straccio di foglio di negatività, e da quello che hanno detto l’azienda economicamente sta bene. E a tre settimane dalla variazione del franco non può già essere così in crisi; questa non è solo la mia opinione, ma anche quella di tutti gli altri”.
Se l’atteggiamento dell’azienda non ha aiutato a conciliare gli animi, qualcosa di positivo è emerso ed è la solidarietà dimostrata dagli altri lavoratori, come quelli delle Ferriere, che a loro volta hanno ricevuto il sostegno dagli operai di Exten. “Non solo, oltre alla vicinanza di Unia e dei colleghi che ora posso chiamare amici, ci ha colpito la solidarietà dimostrataci da altri lavoratori, ma anche da alcuni cittadini del Mendrisiotto che sono venuti a portarci da mangiare”
Fonte: Liberatv

sabato 21 febbraio 2015

Il Califfato a Roma?

La notizia:
Il ministro degli esteri italiano Gentiloni, dopo la notizia della presa di Sirte, ha dato ordine a tutti gli italiani rimasti, di abbandonare immediatamente il paese, dato che questo è completamente collassato e ci sono notizie di intelligence che danno per imminente un dilagare dei guerriglieri dell’ISIS e inoltre, con parole estremamente bellicose per la diplomazia italiana, ha detto che l’Italia è pronta a combattere e quindi ad intervenire sotto l’egida dell’Onu.


Fenrir Libia           



Il commento:
A parte qualche falange di "fasci" in mimetica e pugnale, la guerra gli italiani non la sanno più fare. Un popolo di fighetti da discoteca e secondo anello allo stadio, con ancora la mamma che gli fa il bucato, ha altre "proccupazioni" cui tener conto: fregare il prossimo prima che se ne accorga, lavorare all'estero(con i famigliari che continuano a farlo in patria e in nero) per aumentare il conto in banca (anche quello in nero),non pagare le tasse e votare gli amici dell'amico per ricavarne qualche privilegio. Guerra? Forse smanettando con i Sayan del Super Nintendo, altrimenti nisba! Codesta è ormai diventata una nazione farsa che potrebbe crollare in meno di dieci giorni se un terzo dei combattenti del Califfato avesse tempo da perdere per una passeggiata nel bel(?)paese.
Tralascio ogni considerazione sulla classe dirigente italiota perché parlare del nulla non è mai utile.


giovedì 12 febbraio 2015

Ecco l'Ucraina democratica


Progetto di legge per l'interdizione dell'ideologia comunista

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Un projet de loi déposé à la Rada (Parlement ukrainien) par des députés du parti du Premier Ministre porte « Sur l’interdiction et la diffusion de l’idéologie communiste en Ukraine ». Selon son article 1, le projet de loi définit l’ idéologie communiste « comme un système de concepts, d’idées, d’opinions reposant sur la lutte de classe, la dictature d’une classe sur les autres, la création d’un État totalitaire, la violation des droits de l’Homme et des libertés fondamentales, le déni des droits des peuples à l’autodétermination, la non-reconnaissance du droit à la propriété privée des moyens de production, l’établissement d’un système à parti unique, le renversement violent d’un système étatique ». Sa promotion comprend y compris sa « diffusion dans les médias », la « production ou diffusion de produits contenant les symboles », qui sont : « les emblèmes, drapeaux de l’URSS, ou tout autre insigne qui porte les faucilles et marteaux ; les noms de rues, entreprises, institutions et organisations portant les noms des leaders communistes, le nom de l’URSS ».
Selon son article 2 : « la promotion de l’idéologie communiste en Ukraine est interdite », tout comme la « promotion de partis politiques entités idéologiques qui utilisent les termes Communisme, Marxisme, Léninisme, Stalinisme ». Selon l’article 3, « la production ou distribution de produits avec les symboles communistes, y compris des souvenirs, est interdite en Ukraine ». Enfin, l’article 4 prévoit que les « personnes violant la Loi seront criminellement responsables ». La promotion de l’idéologie communiste serait passible d’une peine pouvant aller jusqu’à cinq ans de prison.

Fonte:http://www.secoursrouge.org/

domenica 8 febbraio 2015

Parigi:Intervista a Rossana Rossanda

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Profondo rispetto per una donna che ha saputo prevedere, con 20 anni di anticipo, la via democristiana del più grande partito "comunista" d'occidente. (n.d.r.) 

Nella sua casa di Parigi la fondatrice del manifesto ricorda incontri e incomprensioni, amici ed avversari, delusioni e grandi sogni vissuti con il partito comunista. L'intervista di Antonio Gnoli è stata pubblicata su Repubblica di domenica 1° febbraio
Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato », dice.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur. Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese».
Collera perché?
«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico».
Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi».
Ma non era comunista?
«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere "Louis Aragon"! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».
Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo ».
E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».
Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».
Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».
Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».
Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato ».
Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti».
Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».
Foucault aveva sparato a zero contro l’esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l’erba sotto i piedi».
Ha conosciuto Foucault personalmente?
«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un’intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l’Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno».
Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un’amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt’altro modo».
Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis».
Quale malattia?
«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all’incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci».
Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».
A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane».
Tra le figure importanti nella sua vita c’è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme».
Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
«Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall’Italia non sono stati rovinati».
Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche — come Margarethe von Trotta — che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un’altra».
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un’idea di Dio dall’età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio».
Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».
Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era un uomo all’antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C’era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell’impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent’anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola».
Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po’ strana».
Si riconosce un lato romantico?
«Se c’è si ha paura di tirarlo fuori. Non c’è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell’innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro».
Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita».
Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe».
È l’orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh».
E le sue radici: Pola? L’Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me».
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. 

giovedì 5 febbraio 2015

Egitto:Quando i carnefici sono "amici"

Redazione di Operai Contro,
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Al Sisi, il carnefice, al servizio dei padroni egiziani si vendica.
Dopo le centinaia di condanne a morte, 230 condanne all’ergastolo.
La stampa occidentale, i padroni democratici, non hanno niente da dire.
Per quale motivo noi giovani arabi dovremmo abbracciare la democrazia occidentale che sostiene il carnefice Al Sisi?
Basta con le menzogne della democrazia occidentale.
Basta con i padroni
Un giovane egiziano
Dal fatto quotidiano
Una nuova vendetta contro i protagonisti della Primavera araba che nel 2011 portò alla caduta del governo diHosni Mubarak.Duecentotrenta condanne all’ergastolo sono state inflitte dalla Corte d’assise del Cairo per violenze commesse alla fine del 2011 nei pressi del Consiglio dei ministri egiziano dai manifestanti anti Mubarak. Ai condannati è stata anche inflitta una multa da 17 milioni di sterline egiziane, pari a 1,95 milioni di euro, per avere dato alle fiamme un centro scientifico vicino al palazzo del governo. Le condanne sono state inflitte per detenzione di armi bianche, e molotov, attacco a militari e poliziotti, incendio di un edificio e assalto a sedi governative tra cui il Consiglio dei ministri e l’assemblea del popolo. Nello stesso processo, 39 minori sono stati condannati a dieci anni di carcere. L’ergastolo o “carcere a vita”, per il codice penale egiziano, consiste in 25 anni di reclusione, ricorda il sito del giornale Al-Ahram.
Solo 14 degli imputati erano in aula mentre gli altri sono contumaci. Il più noto era Ahmed Douma, attivista laico che si era battuto contro Mubarak, la giunta militare di cui faceva parte l’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi e il poi deposto capo di Stato di stato espressione dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi. Ora 29enne, nel 2011 Douma si era fatto un nome come “portavoce della Coalizione dei giovani della rivoluzione” ma è già in carcere da dicembre per due condanne a tre anni rimediate per oltraggio alla Corte (aveva chiesto al draconiano giudice Mohamed Nagi Shehata se era vero che avesse una pagina Facebook su cui esprimeva idee politiche) e per violazione della legge che in Egitto limita il diritto di manifestare.
La condanna di Douma è un altro episodio che contrappone il mondo laico di sinistra a magistratura e forze dell’ordine dopo la recente uccisione di Shaimaa el-Sabbagh durante un piccolo corteo al Cairo, le condanne di dissidenti come Ahmed MaherMohamed Adel e del blogger Alaa Abd El-Fattahsempre a causa della legge anti-manifestazioni contestata a livello internazionale ma giudicata necessaria dal governo per tenere a freno i disordini di piazza.
Il giudice Shehata è quello delle annullate sentenze contro i giornalisti della tv Al Jazeera ma anche di centinaia di condanne a morte contro Fratelli musulmani arrestati durante le proteste contro la deposizione di Morsi ad opera dell’allora capo delle Forze armate Sisi sull’onda di oceaniche proteste popolari.
Appena lunedì il magistrato aveva inflitto 183 condanne a morte a militanti della Confraternita islamica, in uno dei processi di massa tanto criticati da istituzioni internazionali, governi e Ong perché non rispetterebbero gli standard giuridici internazionali. Il numero delle condanne a morte per il linciaggio di 11 poliziotti del commissariato di Kerdasa dell’agosto 2013 peraltro è inferiore alle 683 e alle 528 (di recente ridotte a 37) inflitte in due tronconi di un processo tutt’ora in corso a Minya.

martedì 3 febbraio 2015

Riecco Fidel!

Riecco Fidel! Dopo 630 tentativi di assassinio (USA),centinaia di false morti sbandierate da altrettanti poveretti (Fb,Twitter)e un presunto cancro all'intestino. Acciaio puro, per l'invidia(e qualcosina in più) di molti "potenti" della terra.
Fidel Castro y Randy Perdomo presidente de la FEU
La Habana, 23 gennaio 2015